Omaggio a Wanda Benatti

Permettetemi un aneddoto.
Quando il critico David D. Duncan si presentò allo studio-officina di Picasso per intrattenersi con lui in vista della pubblicazione che voleva fare dell’ opera omnia, forse credeva di essere ricevuto in maniera formale e forse, essere invitato a bere un caffè in giardino. Invece Picasso, indiaffarato e “annegato” attorno a tre quadri ai quali stava lavOrando contemporaneamente solo gli disse: “…Tu vienmi dietro e scrivi, chè io ti precedo con le mie opere… “
Se Wanda mi concede questa trasgressione al limite, è perchè, con Lei, ci troviamo in una situazione analoga.
Qualsiasi cosa che di Lei si sia già visto,non è più dato riscontrarla nell’attività del momento, perchè l’operatività è così tumultuosa che difficilmente passa a ricalcare orme già impresse.
Il rapporto che Ella ha con la tela – Dello stesso si deve dire per gli altri materiali che Ella aggredisce vetro o legno o ferro o carta – è così impetuoso ed irruento da produrre sempre una catarsi dversificante.
E, se dovessimo cercare di scoprire da dove Le viene questo imperativo categorico a dover continuamente produrre espressione, io forse potrei anche riferirmi agli anni lontani in cui ha collaborato al mio studio cercando ogni qual volta possibile di illuminare con un segno poetico la presentazione di qualche mio progetto architettonico, come è stato per la partecipazione alla Biennale di Venezia del 1992 dove le mie chiese comparivano con l’apporto del suo intervento gestuale del colore.
Se dovessimo operare – con il principio decostruttivista – per “smontare” in una sua opera le singole frazioni della composizione, noi troveremmo -certo- una generazione di forme, ma sopratutto scopriremmo come sono i colori che tra loro “lottano” per emergere, per esplodere! Ma, sopratutto, al di là delle forme e ancora dopo i colori, verremmo immancabilmente ad accorgerci che non sono questi gli elementi che danno vita all’opera ,- ma è l’ energia”che vi è contenuta. Perchè l’opera non è ferma, non è statica, non è ne finita nè morta. L’opera è in fase esplosiva e ad ogni nostro gettarvi lo sguardo nella ricerca di capire “fermando” l’immagine che a noi ne perviene, ci accorgiamo che essa è cambiata, è cresciuta, sta superando i limiti del quadro, sta esplodendo.
E’ questo senso di forza che rende alle opere di Wanda un senso di complessità superiore, che non è di natura compositiva, ma appunto”energetica. Vi è come concentrato il principio dell ‘entropia, ma rovesciato, per cui il valore espressivo, a mano a mano che si comprende, anzichè consumarsi, si esalta.
Ma vado avanti. Perchè questa potenza primigenia dell’opera çhe si muove secondo processi stilemici astratti che liberano i contenuti da qualsiasi riferimento antropomorfo, nel liberare l’energia di formazione arriva a rendere -come per magia nascosta- il senso con cui la “Natura naturale” costruisce il mondo.
Ecco allora che, a sorpresa, nel glomere dei grandi gesti pittorici, appaiono orizzonti limpidi; spazi calmi; sembrano quasi venire avanti paesaggi romantici; traspaiono atmosfere proprie dei grandi orizzonti. E vi è, in questa citazione del ‘cielo” con cui Ella vuole memorizzare questa mostra, la tensione – forse inconscia- di riferirsi alla profondità dello spazio siderale come al “luogo misterico” del Creato dove astrazione (il gioco immagignifico degli “astri” e degli ammassi stellari) e massima concretezza (del loro proprio esistere materico) coincidono in unica sublimazione.
Ma ancora una cosa non riesco a non dire. E che riguarda il rapporto prossemico con le opere.
Nel rapportarmi con le rappresentazioni a minor dimensioni è il mio occhio che si sposta verso l’immagine sino ad impossessarsene; è come “uscisse” da me per captare il significato del segno e recapitarlo al mio cervello perchè possa registrarlo e comprenderlo.
Ma con i grandi quadri è tutto diverso. Essi vengono loro verso di me, e si rapportano non con il mio occhio, ma con tutto il mio essere corpo, entrano in contatto psicofisico con il mio io, al punto che mi sembra che il quadro mi inglobi nella sua dimensione , ed io e lui diventiamo un’unica cosa. E’ lo stesso effetto che proviamo nell’esperienza musicale dove il suono diventa il nostro spazio.

Glauco Gresleri
in Bologna
il 10/03/007